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SI TE GRATA QVIES ET PRIMAM SOMNVS IN HORAM DELECTAT,
SI TE PVLVIS STREPITVSQUE ROTARVM, SI LAEDIT CAVPONA,
FERENTINVM IRE IVBEBO;
NAM NEQVE DIVITIBVS CONTINGVNT GAVDIA SOLIS …
(Orazio – Epistularum Liber I, 17, vv. 6-9)
SI TE GRATA QVIES ET PRIMAM SOMNVS IN HORAM DELECTAT,
SI TE PVLVIS STREPITVSQUE ROTARVM, SI LAEDIT CAVPONA,
FERENTINVM IRE IVBEBO;
NAM NEQVE DIVITIBVS CONTINGVNT GAVDIA SOLIS …
(Orazio – Epistularum Liber I, 17, vv. 6-9)

Gli Facocchi

gli facocchiIl mestiere del “facocchi” o costruttore di cocchi, carri, carretti, calessi ecc. a trazione animale è tramontato dacché sono stati immessi nel mercato i mezzi di trasporto meccanici a motore che si sono moltiplicati in maniera prodigiosa negli ultimi trent'anni.
Il lavoro del “Facocchi” consisteva nel costruire carri agricoli, e barozze con due o quattro ruote trainate da buoi, carretti trainati da cavalli, asini e muli per il trasporto di persone e di derrate alimentari o di qualunque altra merce, carrozze per il trasporto di sole persone, bighe e bighette moderne (lontane eredi di quelle greche e romane) e di calessi leggeri ed eleganti tirati da cavalli e da muli per il trasporto di benestanti per diporto o per la caccia.
Le botteghe artigianali dei “Facocchi” erano situate alla periferia della città e lungo le vie carrozzabili più battute pronte per riparazioni o per nuove ordinazioni.
Infatti fino all'immediato dopoguerra (del 1940-45) esistevano a Ferentino due botteghe in piena efficienza, di cui una in viale Marconi, gestita da Alfredo Pantano e famiglia, ed un'altra in Via Casilina presso la contrada di S. Nicola gestita da Antonio Podagrosi.
Era un mestiere abbastanza redditizio e dal lavoro interessante. “Gli Facocchi” lavorava, aiutato da parenti e da qualche apprendista, nella sua bottega come materiale principe il legno duro di olmo, di noce, di acacia o di cerro, specie per le ruote, e come secondario ma non meno importante il ferro per fare i cerchi con cui rivestire e rinforzare la ruota, la cui costruzione era quella che richiedeva maggior tempo, maggiore perizia e accorgimenti vari. Praticamente faceva da fabbro e da falegname in tempi alterni : infatti nella sua bottega teneva ed usava gli arnesi dell'uno come l'incudine, il mantice o la forgia, le madreviti, le pinze, le tenaglie, la morsa, la sega per ferro ecc. e dell'altro come la pialla, il martello, la sega a mano, la morsa a banco, l'ascia ecc. ed in più la piegatrice di ferro massiccio, che pesava oltre un quintale, per piegare il cerchio e l' “incalcatrice”, altro grosso e pesante arnese di ferro massiccio di oltre due quintali, che serviva per calcare il cerchio lento su una ruota usata o vecchia.
Il lavoro più importante e di maggior precisione e che richiedeva più tempo e attenzione era quello di costruire la ruota con pezzi di legno duro segati ad arco ed uniti l'uno all'altro, chiamati “quarti” di ruota. Preparato il mozzo, che doveva girare attorno all'asse, il quale a sua volta doveva unire le due ruote del carro, il “facocchi” innestava in esso i “razzi ” (raggi) e successivamente incastonava questi nella corona circolare costituita dai “quarti” di ruota o “cavelli”. Quindi si arrivava all'operazione finale, più concitata, febbrile e appassionante dell'inserimento della ruota di legno nel cerchione di ferro già preparato e arrotondato dalla macchina piegatrice. Il cerchione di ferro che doveva essere più piccolo della ruota di legno di ben 3 cm., veniva posto a terra e riscaldato fino a diventare incandescente, per mezzo di piccoli tizzoni accesi messi tutti intorno ad esso a forma di X a brevissima distanza gli uni dagli altri. Quando il mastro si accorgeva dell'avvenuta dilatazione del cerchio in maniera adeguata, lo afferravano ansia e trepidazione che trasparivano dal volto, annerito dal fumo. Allora egli dava ordini precisi e perentori ai suoi garzoni di aiutarlo a prendere con le tenaglie il cerchione di ferro infuocato e di adagiarlo attorno alla ruota di legno e ad altri di buttare acqua fredda su di esso per impedire che questa si bruciasse e tutto il gran lavoro finisse in fumo. L'accorrere concitato degli apprendisti a buttare acqua fredda sul ferro rovente faceva sì che questo si raffreddasse, stringesse la ruota con forte adesione fino a che divenisse con il legno tutto un corpo.
La fatica più preziosa era finita, il momento critico e drammatico era stato ben superato e tutti gli operatori, grondanti sudore, erano felici e soddisfatti della loro opera, che era sembrata un'impresa. La ruota era pronta e poteva essere usata assieme alla compagna che attendeva impaziente per completare il carro che il nuovo padrone voleva guidare per straniere contrade a portare il benessere in giro per il mondo.

 
 
Maria Celani Alessi da “Arti e Mestieri di Ferentino di Ieri