SI TE GRATA QVIES ET PRIMAM SOMNVS IN HORAM DELECTAT, SI TE PVLVIS STREPITVSQUE ROTARVM, SI LAEDIT CAVPONA, FERENTINVM IRE IVBEBO; NAM NEQVE DIVITIBVS CONTINGVNT GAVDIA SOLIS … (Orazio – Epistularum Liber I, 17, vv. 6-9)
SI TE GRATA QVIES ET PRIMAM SOMNVS IN HORAM DELECTAT, SI TE PVLVIS STREPITVSQUE ROTARVM, SI LAEDIT CAVPONA, FERENTINVM IRE IVBEBO; NAM NEQVE DIVITIBVS CONTINGVNT GAVDIA SOLIS … (Orazio – Epistularum Liber I, 17, vv. 6-9)
Agli inizi del 1970, una malattia paralizzava gli arti dell'ultimo funaro, il compianto “Patìno” Sisto Bianchi, travolgendo la sua ostinata resistenza a mantenere in vita un'attività artigianale che una serie di cau se aveva messo in crisi diversi anni prima. I primi segni del declino, infatti, erano cominciati con l'avvento sul mercato delle fibre sintetiche e dei prodotti derivati : spaghi, corde ed altro. Ma il colpo mortale al funaro lo vibrava l'abbandono delle terre da parte di fitte schiere di contadini. Cosicché, venuta meno la domanda massiccia sul mercato da parte dell'agricoltura, anche quest'altra valida forma di artiganato locale periva definitivamente. A dare un'impronta prettamente artigiana al funaro, era stato il sig. Ambrogio Coletta (al quale ci sentiamo uniti da un imperituro legame spirituale) che a contatto con i colleghi del napoletano aveva migliorato gli strumenti meccanici della produzione. Contatti che poi aveva esteso al campo commerciale, facendo arrivare da Frattamaggiore (NA) la materia prima, cioè la canapa, che era di qualità migliore. Con “Paténa ‘Ngilina”, nel corso di una patetica conversazione, abbiamo ricordato queste cose, cercando soprattutto di conoscere le modalità e i tempi della filatura della canapa; e quelli successivi della torcitura per la produzione di spago per le cioce, di corde e di funi di cui erano i maggiori acquirenti, dopo i contadini, i muratori, i bovari e i carrettieri. Gli utensili erano costituiti da una larga ruota fissata ad un perno, la quale a mezzo di quattro cordicelle di canapa trasmetteva il movimento rotatorio ad altrettanti rocchetti innestati su un asse di legno posto in orizzontale e in parallelo alla ruota. Ogni rocchetto portava un gancio di ferro, il quale girando consentiva alla canapa di avvolgersi a mano a mano che il funaro si allontanava dal punto di partenza. Da qui il detto popolare: “. . . Và arrètu accomu agli funàru”. Quando si vuol significare che un ragazzo non va bene a scola, oppure un commerciante o altri non fa progressi nell'esercizio del proprio lavoro, vale a dire che fa registrare deficit di cassa. Ad onta del detto popolare, che esprime un'immagine non certo favorevole, il funaro ha conosciuto momenti molto propizi e richiedeva, per la sua pratica, doti non certo comuni di intelligenza e di forza. Per divenire funaro occorrevano mani agili e occhi desti, attitudini necessarie per avere una filatura uniforme e che praticamente si traduceva in economia di materia prima (canapa), in bellezza e consistenza del prodotto. Oltre alle sue qualità, il funaro doveva contare su di un buon collaboratore (di solito era una persona di famiglia) che gli girasse la ruota e che questa fermasse al primo richiamo : “Fermo” “Va!”. Ordini che potevano essere intimati ad ogni passo all'indietro, lungo un piatto viale di m. 40, una decina di metri in più della misura della canapa filata stabilita al limite di m. 30.
Giuseppe Coppotelli da “Arti e Mestieri di Ferentino di Ieri“
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